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Libro de la biblia

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IMMAGINI CHE NON DICONO PIÚ NIENTE

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Gv 10, 11-18

"Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio."

*****

L'immagine del pastore -molto cara alla tradizione biblica e, specificamente, a quella cristiana- risulta, per la maggior parte dei nostri contemporanei, anacronistica o addirittura pericolosa, per le connotazioni che, da una prospettiva come la nostra, racchiude. Questa situazione ci costringe a fare uno sforzo per capire, sia la causa per cui arrivò ad essere cosí cara alla tradizione cristiana, sia il motivo per cui oggi suscita indifferenza o persino rifiuto.

Nella Bibbia, come in altre società antiche, l'immagine del pastore veniva applicata al re del popolo, ed evocava la guida e la cura. Come il pastore, il re aveva la responsabilità di guidare il popolo e vegliare per lui.

Riferendola a Yhwh, il salmista potrà cantare: "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla" (Salmo 23), e darà origine ad una percezione del divino come cura amorosa, che permette di vivere in una fiducia incrollabile.

Il quarto vangelo applicherà quest'immagine a Gesú, e la comunità cristiana primitiva comincerà a disegnarlo come un pastore che carica sulle sue spalle la pecora ritrovata (con il sottofondo della parabola di Lc 15,4-7). Sarà  presentato quale guida che conduce, nutre e protegge..., al punto di offrire la propria vita in favore delle pecore, come afferma il testo che leggiamo oggi.

Non è strano che quest'allegoria abbia favorito una spiritualità e una devozione estesa e profonda lungo tutta la storia cristiana. Guida, cura e protezione connettono profondamente con necessità basilari dell'essere umano. È anche innegabile che quella devozione ha prodotto dei frutti abbondanti di fiducia e di impegno.

L'immagine del pastore avrebbe acquisito, sin dall'inizio stesso del cristianesimo, un'entità tale che tutto il compito della Chiesa avrebbe ricevuto la denominazione di "pastorale", compresi i responsabili della stessa, i quali sarebbero stati designati "pastori".

A cosa è dovuto dunque che la stessa immagine oggi provochi indifferenza o rifiuto? Allo stesso cambiamento socioculturale. Per cominciare, è comprensibile che immagini proprie di una cultura agraria non siano significative per noi che viviamo in una società industriale avanzata; se n'è perso il punto di riferimento.

Ma non solo non è significativa; provoca anzi persino un rifiuto iniziale poiché, nella nostra cultura, evoca atteggiamenti di dominio o, almeno, di paternalismo e della corrispondente "pecoraggine". Potere e sottomissione sono delle realtà correlative, che si richiamano e si sostengono a vicenda. Riporto qui un testo di José Antonio Marina che lo esprime con chiarezza:

"Nelle società orientali antiche -Egitto, Assiria, Giudea- l'archetipo del governante è il pastore, che guida e conduce le sue pecore. Basta che il pastore sparisca perché il gregge si disperda. Il suo ruolo consiste nel salvare il gregge. Questa figura del monarca implica una figura correlativa del suddito. È una pecora che non può dirigere le sue azioni, non sa dove siano i pascoli e, se non fosse per il pastore, si perderebbe e verrebbe mangiata dal lupo. Risulta a dir poco anacronistico che la figura del pastore continui ad essere usata nella pastorale cristiana."

Un'altra espressione fondamentale è quella di "offrire la vita", come equivalente di un amore che non ha misura. All'estremo opposto della voracità egoica che vede gli altri e le cose come oggetti con i quali saziare il proprio vuoto, l'amore di chi ha trasceso il suo io non cerca altro che offrire, "offrendo la vita" giorno per giorno.

È un amore che anela all'unità. A volte, l'espressione "condurre tutti a quest'ovile" è stata intesa come comando proselitistico per "convertire" gli altri, aggregandoli alle proprie credenze. Una lettura di questo genere non può essere che mitica.

È proprio dello stadio mitico credere di essere in possesso della verità assoluta e sentirsi spinti a portarla o imporla agli altri, addirittura "per il loro bene": per tirarli fuori dalla "menzogna" e riportarli alla luce. Ma, come ha scritto lucidamente Raimon Panikkar, "l'immagine del "solo pastore e il solo gregge" è un'immagine scatologica che non deve essere applicata alla storia."

Piú concretamente, nel testo che stiamo analizzando, sembra trattarsi di un'aggiunta, fatta da un glossatore posteriore, con la quale si voleva promuovere l'unità dei membri della comunità, provenienti sia dal giudaismo che dal paganesimo.

 

Enrique Martínez Lozano

www.enriquemartinezlozano.com

Traduzione: Teresa Albasini

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