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QUALE MISSIONE?

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Mc 6, 7-13

Gesú andava attorno per i villaggi, insegnando.

Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa; ma, calzati solo i sandali, non indossassero due tuniche. E diceva loro: "Entrati in una casa, rimanetevi fino a che ve ne andiate da quel luogo. Se in qualche luogo non vi riceveranno e non vi ascolteranno, andandovene, scuotete la polvere di sotto ai vostri piedi, a testimonianza per loro." E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano.

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"Missione" è una parola che attualmente non va piú di moda, fino al punto di correre il rischio di diventare una parola desueta.

Questo fatto lo si può rapportare alla nuova sensibilità che emerge a partire dalla modernità, que porta a mettere radicalmente in questione i soliti presupposti sui quali l'idea della "missione" si sosteneva.

Nata in una fase mitica e, pertanto, etnocentrica, questa idea comportava inevitabilmente una componente di "superiorità" e di proselitismo. Coloro che si ritenevano in possesso della verità -fosse questa di carattere filosofico, politico o religioso- si sentivano nell'obbligo interiore di ("inviati a") farla conoscere, cosicché anche gli altri avessero accesso ad essa.

Accettata tacitamente e definitivamente questa impostazione, tutto il resto ne era la conseguenza. Sia il sentimento di superiorità -spesso sotto forma di paternalismo- sia l'impegno per "convertire" gli altri proclamando che cosí si cercava il loro bene, costituivano degli elementi imprescindibili in quella "cosmovisione".

A mano a mano che si andava superando il livello mitico, cominciò a scricchiolare qualunque idea di "superiorità". E, dal momento in cui cominciammo ad essere capaci di prendere le distanze dal modello mentale di conoscere, fummo in grado di riconoscere che il tranello si trovava proprio in quel principio che si dava per scontato: l'idea stessa di essere in possesso della verità.

Sia le persone che i gruppi possiedono differenti "mappe", con cui si cerca di capire il "Territorio" del Reale. Queste mappe -non può essere altrimenti- sono formate da un insieme di idee, norme e credenze che intendono mirare piú in là di sé stesse. Quando si dimentica questo e le credenze vengono assolutizzate si cade in un errore grave ed estremamente nocivo: quello di credersi in possesso della verità, giudicando erronee tutte quelle altre "mappe" che non coincidano con la propria.

Tra questa posizione, che potremmo denominare "assolutismo dogmatico", e l'altro estremo del relativismo volgare, cominciamo ad essere sempre piú consapevoli del fatto che il nostro modo di conoscere è sempre relativo, per quanto è situato all'interno di certe coordinate spazio-temporali. Se a questo si aggiunge che la Verità non può essere pensata -dato che non è un "oggetto" che si possa delimitare-, ci lasceremo condurre verso un atteggiamento umile in cui non rinunceremo allo spirito critico, ma neanche cadremo nella prepotenza arrogante di chi si identifica con gli esiti -sempre poveri- della propria ragione.

Il nostro spirito critico ci farà vedere che non tutte le mappe sono uguali, che ci sono delle affermazioni più vere di altre e dei modi di agire piú positivi di altri. Ma tutto ciò non ci risparmierà lo sforzo della ricerca né la flessibilità per prendere le distanze dalle nostre proprie mappe, aprendoci alla Verità che le trascende.

Percorrendo questo cammino, che dovrà essere segnato dall'incontro e dal dialogo, cosí come dal rispetto e dalla stima dell'altro, diverso da noi -la differenza non deve essere necessariamente fonte di insicurezza, come avveniva a livello mitico, bensí un apporto che arricchisce-, potremo cominciare, secondo me, a metterci d'accordo su due indicatori.

Il primo di questi, sopra accennato, potrebbe essere formulato in questo modo: la Verità non può essere pensata né confinata né ridotta a una credenza -"il Tao che può essere espresso non è il vero Tao"-; possiamo solamente conoscerla quando noi stessi siamo essa. Non si tratta, dunque, di possedere la verità -una cosa inaccessibile alla nostra mente-, ma di essere Verità. Solo quando siamo Verità la conosciamo.

Ovviamente, questo cammino è molto piú onesto, esigente e umile. Non vedo piú me stesso come qualcuno che -con un sentimento di superiorità piú o meno dissimulato- si crede in possesso della Verità, ma come colui che va scoprendo che soltanto nella misura in cui riuscirà a prendere le distanze dal proprio ego potrà aprirsi al Territorio che trascende la mente e la prospettiva egoica.

E non solo. Uscendo dall'identificazione con il proprio io, emergerà l'Identità condivisa e, con essa, l'Amore e la stima verso tutti gli esseri.

Sempre in questa prospettiva, risulta evidente che l'apertura alla Verità deve necessariamente rispondere adeguatamente alla domanda originaria: "chi sono io?" Le risposte inadeguate o "incomplete" alla stessa, che ci portano ad identificarci con certi oggetti (corpo, mente, affettività, esperienze, credenze...) ci terranno immersi nell'ignoranza, la confusione e la sofferenza. Soltanto la risposta adeguata -sono ciò che non può essere osservato, ciò che non è "oggetto"- renderà possibili la sapienza e la liberazione.

Accennavo anche ad un secondo indicatore per il cammino. Si tratterebbe, a mio parere, della possibilità di condividere un "minimo comun denominatore", nel quale tutti, piú in là delle "mappe" di ciascuno di noi, potremo incontrarci.

Questo minimo credo che non possa essere altro che la cura della Vita -di ogni vita- e l'Amore per tutti gli esseri. Di modo che qualsiasi "mappa" possa essere sottoposta a questo test.

Mi sembra chiaro che tutte le tradizioni spirituali abbiano proposto, in un modo o nell'altro, questo "doppio indicatore", benché posteriormente le "forme" adottate lungo la storia lo abbiano probabilmente oscurato.

Se veniamo al testo del vangelo che leggiamo oggi, vi riconosciamo questa stessa intuizione originaria, prima di quella che sarebbe stata la "pratica" concreta di quelle prime comunità. L'orizzonte dell'invio non è che quello di favorire la vita. Il "potere sugli spiriti immondi" non è altro che l'impegno a favore della vita e delle persone, di fronte a quelle forze che tendono a sottomettere e a danneggiare.

Da questo punto di vista, la "missione" può ritrovare il suo senso. Inviati a favore della Vita, per il cammino dell'essere, che ci condurrà all'esperienza della nostra vera identità, un'Identità che percepiremo come condivisa e non-duale. Sarà quest'esperienza a far sí che sia possibile che modifichiamo i nostri modelli di comportamento, sulla scia che mette in risalto il racconto che segue.

Un antropologo che studiava gli usi e costumi di una tribú in Africa, il quale era sempre circondato dai bambini della tribú, decise di fare qualcosa di divertente con loro: raccolsero una buona quantità di caramelle nella città e le misero tutte in una cesta ornata con nastri, poi misero la cesta sotto un albero.

Chiamò quindi i bambini e propose loro un gioco: quando lui avesse dato il "via" loro avrebbero dovuto correre fino a quell'albero, e chi fosse arrivato per primo alla cesta sarebbe stato il vincitore e avrebbe avuto il diritto di mangiarsi da solo tutte le caramelle.

I bambini furono messi in fila, in attesa del segnale prestabilito.

Quando lui disse "Via!" tutti i bambini si presero per mano e scattarono in una corsa tutti uniti verso la cesta. Vi arrivarono tutti insieme, cominciarono a spartire le caramelle e, seduti per terra, le mangiarono felici.

L'antropologo andò dai bambini e chiese loro indignato perché avevano corso tutti insieme se uno solo avrebbe potuto avere la cesta tutta per sé.

Allora, i bambini risposero: "UBUNTU!!! Come potrebbe uno di noi essere felice se tutti gli altri fossero tristi?"

UBUNTU significa: "Io sono perché noi siamo!"

 

Enrique Martínez Lozano

Traducción de Teresa Albasini

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