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Libro de la biblia

* Cita biblica

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Gv 15,9-17

"Come il Padre ha amato me, cosí anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore piú grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo piú servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.

Mi sembra profondamente saggia e significativa la frase di questo testo evangelico che fa della gioia lo "scopo" del messaggio di Gesú: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena."

Probabilmente, tutto sarebbe molto diverso se fosse questa la motivazione di genitori, educatori e leader religiosi: "che la vostra gioia sia piena". Volere la gioia di qualcuno vuol dire desiderare profondamente il suo bene e mettere la vita ed il bene della persona al di sopra di ogni altro valore.

Quando invece stabiliamo la "norma" come criterio supremo, non desideriamo né la vita né la gioia delle persone, ma solo che siano "ubbidienti", osservanti docili dei principi che noi mostriamo loro.

Se prendessimo le parole di Gesú come criterio di verificazione, potremmo domandarci se le religioni cerchino veramente la gioia delle persone o piuttosto altri interessi, per "religiosi" che essi siano.

L'autorità religiosa della Palestina del I secolo non sembrava cercare la gioia delle persone, bensí lo stretto adempimento dell'ortodossia. Per questo condannò tante persone alla marginalità religiosa (dichiarandole "peccatori") e sempre per questo finí per eliminare il proprio Gesú.

La gioia è un segno palpabile di salute mentale ed emozionale, sia delle persone che dei collettivi. L'assenza di gioia, oltre ad essere indizio di un malessere non risolto, suole tradursi in rigidità e durezza verso gli altri. Non riuscendo io a provare gioia, non posso permettere che altri siano gioiosi.

È proprio cosí: la gioia può trasmetterla unicamente la persona che vive in essa. Perché non è una cosa che si possa trasmettere teoricamente: è credibile soltanto quando la si vede fluire.

E questo doveva essere il caso di Gesú, presentato da una certa tradizione, per la quale il ridere era segno di imperfezione, come l'uomo che "non rise mai" (Bossuet). No; la gioia si dà nella stessa misura che la vitalità. Difatti è il suo primo segno. Quando non c'è niente che "schiaccia" la vita del bambino, questo automaticamente sperimenta la gioia di vivere. Solo quando la vita viene bloccata -generalmente per mancanza di amore-, la gioia si spegne, al punto di crederla svanita.

Gesú è un uomo vitale e gioioso. E per questo non ha altri "interessi" da imporre alle persone. Non è un moralista che cerchi un tipo di comportamento specifico; il suo unico interesse è che la persona possa sperimentare la Gioia profonda.

Questa Gioia non esclude la presenza di difficoltà, problemi, malesseri... Tutto ciò fa parte della nostra condizione e della nostra porzione di esistenza. Ma la Gioia di cui parla Gesú è quella che abbraccia i "bei" momenti insieme ai "brutti" momenti, nello stesso modo in cui la calma profonda dell'oceano permane, potendo questo apparire in superficie ora calmo ora mosso. Si tratta di una Gioia non-duale, che proviamo quando siamo in contatto con la nostra vera identità.

Siamo Gioia, anche se "ci tocca" vivere momenti di buio, di dolore, di afflizione... La nostra sensibilità può essere sconvolta; possiamo riconoscere il malessere come un oggetto che è apparso nel nostro campo di coscienza. Ma questo non ci impedisce di continuare a riconoscerci come Gioia, che non sta alla mercé dei viavai delle circostanze sempre cangianti e nemmeno della nostra mente etichettatrice.

La nostra difficoltà piú grande non è altra che l'identificazione con la mente, che ci fa uscire dal "qui e ora". E la riduzione all'io (o ego), che pensa che la gioia sia che tutto vada bene (qualcosa di impossibile per il povero ego eternamente insoddisfatto perché vuoto). Se fai tacere la mente, anche solo per un istante, non percepisci la Gioia profonda? Che cosa ti impedisce, dunque, di essere connesso ad essa, se non il restare chiuso nei tuoi propri pensieri?

È profondamente significativo che Gesú pronunci queste parole nel quadro del suo "unico comandamento". Gioia e Amore sono due nomi della Realtà che siamo. E non possono essere separati. Non si tratta di credenza alcuna, neanche di un'esigenza morale.

Tutti possiamo sperimentare -o l'abbiamo già fatto- che, quando la nostra capacità di amare viene liberata, la gioia fluisce spontaneamente. E, quando ci sentiamo connessi alla gioia, l'amore fluisce nella stessa misura.

La Vita, nonostante le maschere che possa adottare nella realtà manifesta, è Gioia e Amore.

Perciò, avanziamo nella direzione giusta nella misura in cui rimaniamo coscientemente connessi ad entrambe le realtà. E non -bisogna ripeterlo- per un'esigenza morale, ma perché abbiamo scoperto che si tratta della nostra vera identità.

L'Amore, la Gioia, la Vita..., altrettanti nomi dell'Innominabile, in cui ci incontriamo con lo stesso Gesú come "amico", nel magnifico Territorio della Non-dualità.

Vi lascio una poesia del Lama Guendum Rimpoché (1918-1997), con il desiderio che possiamo vivere nella Gioia, che non è nel futuro, ma che già siamo.

La felicità non si raggiunge

con grandi sacrifici e forza di volontà;

è già presente nel rilassarsi aperto e nell'abbandonarsi.

Non ti sforzare,

non c'è niente da fare o da disfare.

Tutto ciò che appare momentaneamente nel corpo-mente

non ha alcuna importanza;

sia quel che sia, ha poca realtà.

Perché identificarci e poi afferrarci ad esso?

Perché emettere giudizi al riguardo e poi su noi stessi?

È molto meglio lasciare

semplicemente che tutto il gioco avvenga per sé stesso,

emergendo e ripiegandosi come le onde

-senza alterare né manipolare niente-

e osservare come ogni cosa svanisce

e riappare magicamente, una e piú volte, eternamente.

È la nostra ricerca di felicità

l'unica cosa che ci impedisce di vederlo.

È come inseguire un arcobaleno di colori vivi

che non raggiungerai mai,

o come un cane che tenta di acchiappare la propria coda.

Benché la pace e la felicità non esistano

come una cosa o un luogo reali,

sono sempre a disposizione

e ti accompagnano ogni istante.

Non credere nella realtà

delle esperienze buone e brutte,

ché sono effimere come il buon tempo e il brutto tempo,

come gli arcobaleni nel cielo.

Desiderando afferrarti all'inafferrabile

ti consumi invano.

Nell'istante in cui apri e rilassi

il pugno chiuso dell'attaccamento,

ecco lí appare lo spazio infinito, aperto, seduttore e confortevole.

Fa' uso di questo infinito spazio,

di questa libertà e tranquillità naturali.

Non cercare altro.

Non addentrarti nell'inestricabile foresta

inseguendo le tracce del gran elefante sveglio,

poiché è già a casa, riposando placidamente,

davanti alla tua propria casa.

Niente da fare o da disfare,

niente da forzare,

niente da desiderare,

non manca niente.

Guardalo! Meraviglioso!

Tutto avviene per sé stesso.

 

Traducción de Teresa Albasini Legaz

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