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PASTORE E GREGGE: I TRANELLI DI UN'IMMAGINE

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Gv 10, 27-30

"Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è piú grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola."

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Appare indubbio che duemilacinquecento anni con quest'immagine del pastore nella tradizione giudeocristiana hanno lasciato un'impronta nell'immaginario collettivo cristiano. Non nego che, in alcuni casi, l'immagine del pastore -e l'allegoria che porta il suo nome, nel quarto vangelo- abbia potuto risvegliare e alimentare sentimenti di fiducia profonda in Dio e in Gesú.

Ma gli inconvenienti non sono stati minori. Vorrei soffermarmi su di essi, al fine di crescere in lucidità circa i rischi che quest'immagine racchiude e che, in non pochi casi, si sono materializzati in forme concrete che vanno nella direzione opposta al messaggio di Gesú, che proclamava la libertà della persona e l'esigenza di vivere l'autorità come servizio: "Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è cosí; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti." Mc 10,42-44). In relazione a questa parola di Gesú, vorrei segnalare i tranelli che percepisco nell'uso dell'immagine del pastore all'interno della chiesa. Non dico che si viva sempre cosí, ma sí che ci sono dei rischi.

Per cominciare, si tratta di un'immagine anacronistica, che ai nostri contemporanei, cosí lontani dalla vita campestre e pastorale, non dice niente.

Ma c'è qualcosa di piú grave, che vi si intrufola molto sottilmente, e che gioca a favore degli interessi delle autorità religiose, le quali non si lasciano sfuggire l'occasione per presentarsi quali "pastori". È chiaro che si tratta di una parola che non ha bisogno di alcuna aggiunta: il "pastore" è colui che sa, colui che dirige, colui che è al di sopra, colui che controlla e che, se necessario, punisce. Non deve essere casuale che la parola "vescovo" provenga dal greco ἐπίσκοπος ("episkopos"), che significa "sorvegliante". È vero che può anche essere colui che dà l'alimento, ma questo potrebbe generare una dipendenza ancora peggiore.

L'immagine del "pastore" non ha solo una ripercussione negativa nel modo di intendere il ruolo dell'autorità, ma contamina anche la visione che il proprio credente ha di sé stesso e del gruppo religioso a cui appartiene.

Poiché quello che conduce il pastore sono "pecore": basta introiettare quest'immagine per favorire un'atteggiamento e un comportamento "pecoresco", che può arrivare (è arrivato) a delegare la propria responsabilità nelle mani dell'autorità.

Orbene, siccome niente (pure se vissuto inconsciamente) è gratuito, il "comportamento da pecora" cerca senz'altro dei compensi o "vantaggi" che soddisfino la persona che è stata sottomessa. E ve ne compaiono diversi.

Il primo vantaggio è la sensazione di sicurezza che questo apporta. Si sa che noi umani abbiamo un tale bisogno di sentirci sicuri da essere capaci di rinunciare perfino alla libertà (e alla libertà di pensare e di decidere) pur di far allontanare il fantasma dell'insicurezza.

Apporta anche la sensazione del figurare tra "gli eletti", coloro che sono dell'"ovile", di fronte a quegli altri che vivono disorientati nel loro errore. Questo sembra conferire un certo status di superiorità che non è difficile avvertire nei circoli religiosi.

Da questa posizione che si considera privilegiata -benché poi si aggiunga che la fede è un dono gratuito-, derivano altri "tic" che tendono a deformare anch'essi gravemente il nucleo spirituale che si vuole vivere.

Il primo di questi consiste nel confondere la propria religiosità con la spiritualità, come se quella fosse la "via certa" e tutte le altre non fossero che autoinganni, che vengono tollerati, ma che si guardano con una certa superiorità a partire da un atteggiamento paternalistico di chi crede di essere in possesso della verità.

Un altro tic caratteristico è l'aria piú o meno proselitistica -pur se solo espresso nella formula: "dobbiamo dare testimonianza affinché altri credano"- che scaturisce da quella credenza e che si "intrufola" persino in non poche presentazioni della cosiddetta "nuova evangelizzazione".

Da questo stesso luogo, sembrano arrogarsi addirittura il potere di assegnare la tessera di veri credenti soltanto a quelli che loro decidono, al punto che, in casi estremi, non si fanno scrupolo a proclamare che chi non crede come loro si trova al di fuori della fede della chiesa.

Se a tutto ciò aggiungiamo una certa aria di vittimismo quando le circostanze non sono per loro cosí favorevoli come vorrebbero, troviamo espressioni che ci fanno provare vergogna per loro: "Oggi non è di moda credere"; "non si dà importanza al cristianesimo"; "è una società vuota"; "esiste solo la religione alla carta"; "noi credenti siamo perseguitati"...

A mio avviso, questi luoghi comuni rivelano prepotenza e ignoranza. Da un lato perché in molti casi è stata la propria istituzione religiosa quella che ha seminato ciò che adesso raccoglie. Dall'altro perché il declino di una forma o religione istituzionale non significa il crollo dell'esperienza spirituale. Erano forse piú spirituali le persone nel Medioevo, quando era obbligatorio assistere alla messa, che attualmente?

Forse sarebbe bene lasciare da parte l'immagine del "pastore", aprirci alla parola di Gesú, valida per tutti noi ("io e il Padre siamo una cosa sola") e assumere il suo modo di vita a favore delle persone, abbandonando ogni forma di religione esclusivistica, che sembra ricordare -rimpiangere- le maniere del "nazionalcattolicesimo".

 

Enrique Martínez Lozano

www.enriquemartinezlozano.com

Traduzione: Teresa Albasini

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